UNA TERRA DIVISA TRA FORESTE E PIANTAGIONI
Ci rimettiamo in marcia di primo mattino. La strada segue percorsi in mezzo alla natura, l’andatura del pulmino sul quale viaggiamo è lenta per via delle strette carreggiate e soprattutto della pioggia battente. Visitare la Costa Rica e sperare di trovare esclusivamente giorni di sole è infatti una speranza vana. Le precipitazioni sono spesso molto abbondanti, ma di breve durata e poi lasciano spazio al sereno. La pioggia è l’alchimista che trasforma la pietra della cordigliera in terreno fertile, senza la sua continua presenza la lussureggiante vegetazione che tutto avvolge non sarebbe la stessa.
“Avrebbero dovuto chiamarla Costa Verde, non è vero?”, Enrique, la nostra guida, ci sorride. Nel Cinquecento i conquistadores battezzarono questa terra lontana Costa Rica, poiché, ammirando i gioielli delle popolazioni indigene, erano convinti di trovare strabilianti miniere d’oro. Ma non andò esattamente così. La vera ricchezza, da cogliere nel suo insieme, non era da scovare nei letti dei fiumi o dentro le montagne. Era il clima, la natura primitiva, il suolo ricco di nutrimento. A imparare la lezione sono state le moderne società coloniali, le grandi multinazionali straniere (statunitensi in primis) che hanno comprato migliaia e migliaia di ettari dal governo costaricense, destinandoli alla coltivazione di ananas, banane e caffè (la Costa Rica è il primo produttore di ananas fresco al mondo, il 50% dell’esportazioni finisce negli Stati Uniti, il 47% in Europa).
La pianura del Tortuguero che stiamo attraversando, è in buona parte ricoperta da queste piantagioni intensive che spezzano con le loro rigide geometrie la maestosità della foresta.
La nostra prossima meta però è fortunatamente più in là, verso la fine della grande pianura, nel Parco Nazionale del Tortuguero, dove la natura torna a dettare le sue regole.
A SPASSO PER I CANALI DEL TORTUGUERO
Lasciamo il pulmino al porto di La Pavona e ci imbarchiamo su un piccolo battello che risale a tutta velocità il fiume La Suerte. A ogni miglio guadagnato la trama degli alberi si infittisce. La barca prosegue la sua corsa per circa quaranta minuti e infine sbuca in un grande canale artificiale – ricavato dalla foresta per il trasporto di legname-, davanti al pueblo caraibico di Tortuguero, in provincia di Limòn.
Il villaggio, diviso tra mare e laguna, ci accoglie con i suoi murales colorati a pelo d’acqua.
Dopo un pranzo a base di riso, fagioli neri e patacones (pezzi piani di banana fritta), partiamo per un’escursione tra i canali naturali del parco in cerca di scimmie, iguane, caimani e uccelli (309 specie di volatili registrate, 20 migratori).
La ricchezza della fauna e della flora (32 diverse specie di piante per ogni ettaro, una densità maggiore della foresta amazzonica) manderebbe in estasi perfino un equipe di zoologici e di botanici, ma la specialità della casa è un’altra. Tortuguero – il nome non mente – è il luogo prediletto della maggior parte delle tartarughe verdi dei Caraibi (un esemplare può misurare un metro e cinquanta e raggiungere i 200 chili di peso).
L’occasione giusta si presenta di notte quando, accompagnati da un ranger del parco munito di una lampadina a infrarossi, ci incamminiamo lungo la spiaggia e guardiamo in rigoroso silenzio una testuggine deporre le uova nella sabbia. L’esperienza è coinvolgente e genera in noi una forte empatia verso queste grandi femmine di tartaruga che si trascinano pesantemente sulla sabbia – rischiando di essere sbranate dai giaguari che si aggirano per la zona – scavano con tutta l’energia rimasta una buca di circa 60 centimetri destinata alle uova, la ricoprono e poi lasciano altri segni di scavo sulla sabbia, nel tentativo di depistare i predatori. Un’operazione complicatissima e con un indice di successo bassissimo. Dopo la schiusa, solo un piccolo su 1000 riuscirà infatti a raggiungere il mare e a sopravvivere.
La triste conferma arriva il giorno alle prime luci dell’alba, quando sorprendiamo uno stormo di avvoltoi aggirarsi per la spiaggia. Ci avviciniamo, spiegano le ali e scappano. Ma restano qua e là tantissimi gusci vuoti o resti di piccolissime tartarughe.
Alla figura triste e tormentata della femmina di tartaruga, si contrappone quella agile e spensierata della Jacana Jacana, un piccolo volatile che zampetta sulla vegetazione acquatica. Mentre il maschio cova le uova, la compagna se ne va alla ricerca di un nuovo partner. Insomma, la natura è crudele e spietata, ma è per le pari opportunità.
La mattina seguente ritorniamo a San Josè in areo Caravan monorotore 12 posti (le compagnie che prestano questo servizio sono due: Sansa e Naturelle. Il peso massimo del bagalio non può superare i 12 chili). Lungo il tragitto sorvoliamo il vulcano Turrialba e il Parco Nazionale Braulio Carillo.
Dopo mezzora di volo siamo di nuovo nel mondo degli uomini e la foresta ci manca di già. Il traffico di San Josè è un brusco risveglio dalla tranquillità dei canali del Tortuguero.
Piccola parentesi economica. Le case a San Josè costano una media equivalente di 1000-1300 euro al metro quadro, affittare un’abitazione di 100 metri quadrati dai 400 ai 700 euro (la moneta locale è il colòn). Lo stipendio medio in Costa Rica è di 1200 euro, il che significa uno costo della vita più alto rispetto agli altri Paesi centroamericani, ma la tranquillità che può respirare il turista – almeno per ciò che abbiamo avuto la possibilità di sperimentare – è davvero rassicurante (i cartelli del narcotraffico non sono presenti sul territorio, sebbene sia comunque una zona di transito della droga). “Lo sai che con venti milioni si può comprare un bar in Costa Rica?” la frase di Aldo, Giovanni e Giacomo nel film “Tre uomini e una gamba”, va ahinoi completamente riscritta.
TRA CASCATE ED EFFETTI OTTICI
Imbocchiamo nuovamente la direttrice Panamericana per visitare prima la Fabbrica di caffè Doka (dove scopriamo che in Costa Rica si produce solo caffè arabico su decreto nazionale del 1986) e in seguito il vulcano Poas, l’attrazione numero uno della Tiquicia. La pioggia nel frattempo si intensifica e così siamo costretti a rinunciare all’escursione sul vulcano. Non resta che girare il Parco dei Giardini e Cascate La Paz, camminando nel suo “mariposario” (recinto per farfalle) tra i più grandi del mondo, nel giardino dei Colibrì, nel serpentario, nel ranario e fuori dalla “stanza” dei (tristi) giaguari che guardano maliconici oltre il vetro. Il pomeriggio prosegue nella foresta pluviale lungo un sentiero che ci conduce ad ammirare da vicino le cinque cascate del parco. La più alta è la “Magia Blanca”, chiamata così perché se si concentra lo sguardo sul suo imponente flusso per circa 15 secondi e poi lo si sposta in direzione della roccia alla sua sinistra, questa comincerà ad agitarsi ondeggiando.
Siamo a Cinchona, un luogo che porta il nome di un albero dalle proprietà antimalariche, piantato dagli americani in quest’area nel 1940, per ricavare la medicina destinata alle truppe stanziate in Asia.
È l’ultimo giorno nella terra dei Los Ticos. Domani si cambia Paese, domani si va a Panama.
PANAMA CITY, DAI GRATTACIELI AL CASCO VIEJO
Un connubio tra storia e modernità con una natura lussureggiante a portata di mano.
Panama City ci dà il caldo benvenuto con una temperatura che si aggira sui 35 gradi di pura umidità e un sole che si ritaglia sempre più spazio nelle pieghe del cielo nuvoloso. Sulla strada che conduce dall’aeroporto in centro, osserviamo la linea di imponenti grattacieli che si staglia in lontananza e che definisce fin da subito l’impronta occidentale della città. Panama City viene definita “la Miami del Pacifico” e girando per le sue strade e il suo lungomare ci si accorge di quanto il paragone sia calzante. Non è un caso neppure che la moneta nazionale sia il dollaro, l’inglese sia usato quasi quanto lo spagnolo e gli Stati Uniti abbiano avuto un ruolo di primo piano nella storia del Paese negli ultimi 100 anni. Nella zona moderna dei grandi palazzi e delle sedi dell’alta finanza (6000 dollari al metro quadro; per viverci occorre uno stipendio di almeno 5000 dollari mensili) spuntano ovunque sportelli bancomat e uffici di cambio. In tutta la città si contano ben 436 filiali di 96 banche internazionali. Il simbolo è la revolution F&F Tower o El Tornillo (la vite), un caratteristico edificio che si attorciglia su se stesso, disegnato da Pinzón Lozano & Associati.
Per svicolare dal presente e assaporare un po’ di storia passata è necessario spostarsi verso il quartiere del Casco Viejo (anche Casco Antiguo o San Felipe) dove chiese e conventi medievali si mescolano con tre diversi esempi di stili coloniali: statunitense, francese e spagnolo. Il Casco Viejo, fondato nel 1519, è stato il primo insediamento europeo sulle coste dell’Oceano Pacifico. La memoria storica di Panama risiede fra i suoi vicoli dal fascino cadente, che pian piano si stanno si stanno riqualificando grazie al turismo. Curioso il caso del lussuoso American Trade Hotel nella piazza intitolata all’eroe nazionale Tomas Hererra. L’edificio, che oggi ospita una clientela internazionale di alto profilo, è stato prima utilizzato per dare dimora a chi aveva perso la propria casa durante la rivoluzione del 1989, in seguito occupato dalla gang cittadine e trasformato nel loro quartier generale. Un pannello fotografico posto accanto alla scala principale mostra tutte le scritte e i murales ritrovati sulle pareti.
Ma le storie del Casco Viejo sono tante e ben più antiche. Come quella che ha protagonista la Iglesia de San Jose, una delle chiese più ambite dai panamensi per celebrare i matrimoni. Si narra che nel XVII secolo, l’altare d’oro 23 carati posto nel coro sia stato camuffato con terra e fango da un sacerdote per evitare che venisse rubato dal pirata Henry Morgan, il quale entrò nella chiesa e mangiando la foglia si rivolse al prete: “Non so chi sia più pirata tra me e te”. Su questo stesso altare compaiono incisioni del barocco europeo e piante di mais, simboli che indicano una prima commistione con la cultura locale.
Un’ultima storia che vale la pena di raccontare comincia all’interno dell’ex convento di San Domenico e ruota attorno al un elemento architettonico: l’arco chato o arco piatto, che resistette senza interventi esterni fino al 2003. La sua longevità fu uno dei motivi che incoraggiò la costruzione del canale, perché solenne dimostrazione che Panama era una zona sicura, non interessata da fenomeni sismici.
Poco distante dal casco Antiguo si trova il Chorillo, un quartiere considerato a rischio, dove è consigliato non transitare (lo stesso vale per Currundù, San Miguel, Santa Cruz, Capo Verde, San Miguelito).
La sera passeggiamo sul lungo mare seguendo Avenida Balboa e incontriamo tantissimi gruppi di ragazze e ragazzi che fanno jogging, famiglie e genitori con passeggini. Le luci della città illuminano i frequentatissimi campetti di calcio aperti al pubblico e intanto colorati discobus cominciano ad animare la festa del sabato sera.